1820: Editto delle Chiudende - Governo sabaudo - Sardegna


Scritto da gea-staff
pubblicato il 28/02/2018 aggiornato il 01/03/2018
Categoria: cultura e tradizioni
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cultura e tradizioni
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L'Editto delle Chiudende, emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I e pubblicato il 4 aprile 1823, introduceva la privatizzazione delle terre di tutta la Sardegna.

Le conseguenze furono nefaste sia dal punto di vista economico che sociale.


Il Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna (il nome originale dell'editto, ndr) venne emanato dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I il 6 ottobre 1820 e pubblicato il 4 aprile 1823.

Fino al 1820 in Sardegna vigeva il regime della proprietà collettiva dei terreni, un principio pilastro della cultura e dell'economia sarda.

Con l'introduzione del famigerato Editto questo principio venne sradicato in favore dell'istituzione della proprietà privata con l'intento, da parte del governo sabaudo, di innescare nell'isola un meccanismo virtuoso capace di agevolare la modernizzazione del settore agrario con nuovi investimenti (privati) e, allo stesso tempo, in via ufficiosa, creare una nuova classe sociale fedele alla Corona, rappresentata dai proprietari terrieri, riducendo - come conseguenza - il potere dei feudatari locali.

Nella teoria il nuovo regolamento prevedeva che chiunque poteva far valere il proprio diritto di proprietà erigendo delle recinzioni mediante muri, siepi o fossi, al fine di delimitare i terreni fatta eccezione per quelli gravati da servitù di passaggio, pascolo o persino quelli in cui erano presenti fonti pubbliche come ad esempio fontane o abbeveratoi. Nella pratica, invece, le nuove norme sortirono effetti nefasti sia sul piano economico che sociale dando il via ad una vera e propria anarchia a colpi di usurpazione.

L'editto favorì principalmente i "ricchi e potenti" che, grazie anche alla clausola che autorizzava i comuni a vendere i propri terreni o cederli a titolo gratuito, iniziarono ad appropriarsi di vasti appezzamenti terrieri inglobando persino abbeveratoi e fonti pubbliche a scapito di pastori e contadini. Quest'ultimi, nel breve tempo, si ritrovarono a dover pagare un altissimo "fitto" per poter usufruire dei terreni sia per il pascolo di greggi che per la coltivazione. 

Abusi di ogni genere e prepotenze dilagarono rapidamente. Il settore agrario nell'isola invece di evolversi  entrò in una fase di stallo che aggravò le condizioni economiche e sociali dei sardi. I nuovi proprietari terrieri, infatti, trovarono più vantaggioso - e proficuo - "ricattare" pastori e contadini erigendo muri e arricchendosi solo attraverso i fitti rispetto all'effettuare investimenti per migliorare, ad esempio, le tecniche produttive agricole.

Il sorgere di nuove recinzioni e il "vanto" del diritto di proprietà non fecero altro che diffondere in tutta l'isola un malumore generale. Fra contadini e pastori nacquero dissapori e contrasti e, in alcune zone, il senso di ribellione alimentò il fenomeno del banditismo sardo: grassazioni, furti, omicidi, incendi etc.. 
L'incapacità del governo sabaudo nel far rispettare la legge ed evitare i vari abusi e soprusi locali incentivò quel clima di malumore, spingendo i pastori (spesso spalleggiati dai feudatari, ndr) a farsi giustizia da sè. 
In parecchie zone della Sardegna, soprattutto in quelle dove la percentuale di terre di proprietà comunale era elevata, tra cui Siniscola, Orune, Orgosolo e Villagrande, le reazioni furono più aspre.

Nel 1832 l'esasperazione di buona parte della popolazione, composta da feudatari, pastori e poveri contadini, si tramutò in rivolta violenta ed armata (al grido di "a su connottu", ndr) e il loro obiettivo primario era quello di distruggere ogni recinzione eretta dai privati o dai comuni sui tutti i terreni ademprivili [1]

La reazione del governo sabaudo non si fece attendere, a tal punto da dar luogo ad una repentina repressione sanguinaria. In quel periodo, inoltre, vennero emesse varie condanne a morte nei confronti dei rivoltosi, che spesso si diedero alla latitanza.
Solo qualche anno più tardi, nel 1833, si cercò dal punto di vista legislativo di mettere una pezza  sospendendo l'Editto e restituendo alla collettività parecchi ettari "privatizzati", soprattutto abusivamente, ma il clima e la situazione pastorale dell'isola risultava oramai mutata.

Il 21 maggio 1836 un nuovo editto regio abrogò definitivamente il feudalesimo, dopo cinque secoli. Il governo sabaudo riscattò tutti i feudi, dietro lauti compensi (recuperati dalle casse comunali, ndr), e ridistribuì i terreni fra comuni, privati e demanio statale. Successivamente a questa operazione vennero aumentate notevolmente le imposte locali.


Il malumore di quel periodo storico venne racchiuso egregiamente in una poesia del poeta macomerese Melchiorre Murenu, anche se qualcuno la attribuisce al frate ozierese Gavino Achena: Tancas serradas a muru.

Tancas serradas a muru,
Fattas a s’afferra afferra,
Si su chelu fit in terra,
che l’aian serradu puru

Tradotta in italiano:

Tanche chiuse con muro,
fatte all’arraffa arraffa;
se il cielo fosse in terra,
avrebbero recintato pure quello

Nel 1993 questi emblematici versi vennero inseriti in un'opera murale (di denuncia) dipinta dall'artista jerzese Luigi Pu a Villamar.




Approfondimenti
[1]: terreni ademprivili erano appezzamenti di terra su cui vigeva il diritto ademprivio, cioè quel diritto che rendeva il bene "comunitario" e di conseguenza liberamente sfruttabile dalla popolazione. Un esempio era rappresentato dai terreni sfruttabili per il pascolo.


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Riferimenti /Ringraziamenti

Foto tratta da: gabob.altervista.org


Scopri i dettagli dell'opera murale di denuncia dipinta da Luigi Pu a Villamar (1993).

Ascolta il brano Tancas serradas a muru cantato dal Coro Supramonte Orgosolo




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